Come è noto, più che da grandi gruppi industriali il panorama economico italiano è dominato dalle microimprese. Una conferma arriva dall’ultimo censimento di Cerved, la banca dati di informazioni per il mondo degli affari, secondo la quale il 93% delle aziende italiane (712mila sul totale delle 770mila imprese italiane, escluse banche, assicurazioni e holding) non supera i 5 milioni di euro di fatturato annuo. Inoltre, sono meno di seimila le aziende con un revenue tra 30 e 100 milioni e appena duemila quelle con un fatturato superiore a 100 milioni.
Piccolo, però, non significa poco competitivo. Secondo l’ultimo Rapporto Pmi 2005, curato da Unioncamere e Istituto Tagliacarne, le piccole imprese del settore manifatturiero (fino a 249 addetti) nell’ultimo decennio hanno migliorato progressivamente le proprie performance, “rubando” terreno alle grandi aziende (con oltre 250 dipendenti). La ricerca, che utilizza come parametro il valore aggiunto, ovvero la differenza tra il totale della produzione e i costi di acquisto di beni e servizi esterni, rileva che questa tipologia di aziende ha registrato un incremento annuo pari a 2,7%, contro il +1% delle grandi aziende dello stesso comparto. Il rafforzamento delle Pmi riguarda soprattutto il Mezzogiorno, dove il tasso di crescita media annua del valore aggiunto è del 4,3%. Meno rilevante l’incremento al centro (+3,1%), nel nord-ovest (+2,4%) e nel nord-est (+2,2%). Nell’area nord orientale tengono meglio le imprese di maggiori dimensioni, che incrementano il valore aggiunto del 3,3%, confermando una tendenza in atto dal 1995.
Sul totale delle 540mila imprese manifatturiere con meno di 249 dipendenti, meritano attenzione circa 15mila società connotate da una forte carica competitiva, che le fa aspirare al salto verso la media dimensione. Pur rappresentando appena il 3% sul totale delle imprese, esse rappresentano il 19% del valore aggiunto del settore e occupano circa 900mila addetti. Ottime le performance di queste aziende anche in termini di fatturato: le stime per il 2006, infatti, prevedono un incremento del 22,7%, in netta controtendenza rispetto al –3% registrato dall’intero settore.
Previsioni ottimistiche
In generale, comunque, le aspettative di crescita per l’intero segmento delle Pmi manifatturiere sono positive. Di 3500 imprese del comparto interpellate, un terzo (33,8%) stima per il biennio 2006-2007 un miglioramento della competitività. Il 56,6% ritiene che la competitività rimarrà stabile, mentre solo il 5,9% prevede un peggioramento. Riguardo alle prospettive di miglioramento, il settore della meccanica è il più ottimista (50,3% delle imprese intervistate). A seguire troviamo il settore calzaturiero (27,6%) e il comparto tessile (24,4%).
A giudizio delle imprese, i fattori su cui puntare per tenere alta la competitività sono la politica dei prezzi (per il 60% delle imprese), le relazioni con la clientela (51,7%), l’innovazione del prodotto e la qualificazione (49,9%).
Il Rapporto Pmi 2005 trova conferma in una più recente rilevazione di Unioncamere, secondo la quale nel terzo trimestre di quest’anno le piccole e medie imprese del settore manifatturiero hanno registrato una crescita in termini di produzione dell’1,3% e un incremento del fatturato pari a +1,5%. Anche in questo caso, il motore della crescita è rappresentato dalle piccole imprese più strutturate (con almeno 10 dipendenti) e da quelle di medie dimensioni (con 50-500 addetti). A livello settoriale, positivo l’andamento delle industrie meccaniche e dei mezzi di trasporto (+3,5 e +3,3%), del trattamento dei metalli (+3 e +3,6%) e delle aziende che producono macchine elettriche ed elettroniche (+2,9 e +2,4%).
Poco tecnologiche
Perché la crescita delle Pmi prosegua, però, è necessario un investimento nelle nuove tecnologie (sistemi Erp, Intranet ed Extranet, applicazioni Mobile&Wireless) per migliorare i processi interni. Su questo fronte la strada da fare è ancora lunga, almeno secondo l’Osservatorio sulle Ict nelle Pmi, presentato lo scorso giugno dalla School of Management del Politecnico di Milano. L’indagine, realizzata periodicamente allo scopo di rilevare il grado di penetrazione delle Ict (infrastrutture It e di comunicazione, sistemi gestionali, applicazioni di e-business ecc.) presso le aziende di piccole e medie dimensioni, rivela che solo il 41% delle Pmi nel corso di quest’anno ha compiuto investimenti significativi nelle aree dell’Ict, dell’innovazione di prodotto e dei processi, nella valorizzazione del marchio e nell’internazionalizzazione. Va detto, però, che questo dato è fortemente condizionato dalle imprese di piccole dimensioni, con un numero di addetti tra due e nove. Le imprese con più di 50 dipendenti, al contrario, dimostrano una maggiore sensibilizzazione verso le innovazioni tecnologiche. Gli investimenti riguardano soprattutto i progetti Ict (indicati dal 20% delle imprese). A seguire compaiono i piani per rinnovare i processi (avviati dall’11% delle Pmi), i progetti di innovazione del prodotto (6%), la valorizzazione del marchio (5%) e l’internazionalizzazione (3%).
Attualmente il 24% delle imprese ricorre a sistemi gestionali evoluti, quali gli Erp. Il 50% invece, ricorre a soluzioni più semplici, che consentono la gestione della contabilità e dell’amministrazione. Per quanto riguarda le applicazioni di e-business, solo il 12% delle aziende dispone di una Intranet aziendale. La percentuale scende al 7% per le Extranet rivolte ai clienti e al 3% per quelle dedicate ai supplier. Va segnalata, però, la progressiva diffusione anche presso le Pmi dei servizi offerti dai provider di aste online. Per quanto concerne, infine le applicazioni Mobile&Wireless, sono ancora limitate (10%) nelle aziende con meno di 50 dipendenti. La percentuale è più elevata (oltre il 50%) nelle aziende da 250 a 500 addetti. In questo ambito, le applicazioni più diffuse (e destinate a un’ulteriore diffusione nel prossimo futuro) sono quelle a supporto delle attività logistiche di magazzino basate su rete wi-fi.
L’andamento delle multinazionali
Se le Pmi italiane sono più competitive, diversa è la situazione per le nostre multinazionali, che non sembrano tenere il passo con i colossi mondiali. Questo, almeno, è quanto emerge dall’ultima edizione di “Multinationals: financial aggregates”, indagine annuale condotta da R&S (Ricerche e Studi) di Mediobanca. La ricerca si basa sull’analisi delle attività finanziarie di 275 gruppi internazionali (230 appartenenti al settore manifatturiero, 27 al comparto delle telecomunicazioni e 18 composto da utilities attive su scala internazionale) nel 2004. Segnaliamo che per essere incluse nell’indagine le imprese debbono avere un fatturato di almeno due miliardi di euro e rappresentare almeno l’1% dell’aggregato del proprio paese di origine (nel caso dei gruppi industriali) o del settore (nel caso dei servizi di telecomunicazione e delle utilities).
Dallo studio emerge che dal 1989 (anno in cui sono cominciate le rilevazioni di R&S) al 2004 i gruppi ad aver registrato la crescita più significativa per totale attivo sono stati quelli statunitensi(+114% in euro, +145% in dollari). Seguono le multinazionali europee (+134% in euro) e le società giapponesi, che hanno registrato un incremento decisamente più contenuto (+52% in yen). Emerge, tra l’altro, il consistente divario tuttora esistente tra il capitale medio delle multinazionali europee e quello delle corporate americane e giapponesi. Nel 1989 il capitale medio di un gruppo del Vecchio continente ammontava a poco meno della metà di quello delle aziende nordamericane e nipponiche, oggi queste ultime dispongono in media del 28-31% di capitali in più.
La ricerca propone anche la classifica dei gruppi industriali mondiali. Ai primi 12 posti compaiono prevalentemente società petrolifere e automobilistiche. In totale, sono presenti tre multinazionali americane, una giapponese e cinque europee. Conquista il primo posto la tedesca DaimlerChrysler, seguita dalla giapponese Toyota Motor e dalla britannica Royal Dutch Shell. Per quanto concerne il comparto delle telecomunicazioni, al primo posto nella classifica dei primi 12 gruppi compare la società giapponese NTT, con 125 miliardi di euro di attivi. Gli Stati Uniti sono presenti in elenco con due aziende, Verizon e SBC. Tra le utilities, troviamo ai primi posti la francese EdF e le tedesche E.ON e Rwe. Al sesto posto troviamo Telecom, con 31,1 miliardi.
Soffermandosi sulle performance del nostro paese, si osserva che nella classifica dei dodici principali gruppi industriali non compare alcuna multinazionale italiana: il gruppo Eni, la principale multinazionale del nostro Paese con un fatturato di 58,382 miliardi di euro, si piazza al sedicesimo posto, mentre Fiat (53,895 miliardi di euro) occupa la ventitreesima posizione. L’indagine, però, sottolinea che dal 1993 a oggi in Italia il numero dei gruppi italiani inclusi nell’indagine è aumentato, passando da otto a 15 (oltre a Eni e Fiat, attualmente l’elenco include Finmeccanica, Riva Fire, Pirelli, Edison, Barilla Holding, Italcementi, Luxottica, Indesit, Cofide, Buzzi, Rcs, Fincantieri e Gim). Al contrario, per effetto di un processo di progressiva concentrazione del mercato, la Germania è scesa da 25 a 18 gruppi, il Regno Unito da 25 a 17 e la Francia da 24 a 20.
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Mission N. 8, novembre-dicembre 2006 – Testo di Simona Greppi