Le case automobilistiche riducono le emissioni

Pungolate dall’iniziativa incalzante dell’Unione Europea, le case automobilistiche mostrano finalmente progressi tangibili sul fronte della riduzione delle emissioni nocive prodotte dai propri modelli. Il loro procedere però resta stentato, come quello di una persona recalcitrante che ha bisogno di continue spinte alle spalle per fare qualche passo in avanti. Ai miglioramenti tecnologici, nel favorire la marcia verso un’auto meno inquinante si sono aggiunte negli ultimi anni le deboli condizioni generali dell’economia, che spingono all’acquisto di vetture più piccole e leggere, ovvero più economiche. Ma sono ancora pochi i costruttori che sembrano credere in una svolta più profonda, che riguardi il modo di pensare l’auto: nel complesso, l’industria pare impegnata a limitare i danni più che a cogliere nuove opportunità.

Il protocollo di Kyoto
Andiamo con ordine. In base al Protocollo di Kyoto, l’accordo globale sulla riduzione dell’inquinamento siglato nel 1997 (ma ratificato dell’Unione europea solo nel 2002), i paesi dell’area Ue sono impegnati a conseguire entro il 2012 un calo delle emissioni di gas serra pari all’8% misurato sui livelli del 1990. Un ruolo fondamentale nel raggiungimento di tale traguardo dovrebbe venire dal mondo dei trasporti, soprattutto in Paesi come l’Italia. Le automobili, si legge in un recente documento di Legambiente che conferma un problema già noto, sono la prima causa dell’inquinamento atmosferico nelle città italiane e la seconda fonte di emissione di anidride carbonica della Penisola dopo gli impianti di produzione dell’energia.
Come sono andate le cose da Kyoto in poi lo sintetizza Daniel Monetti, coordinatore della campagna sulle emissioni di CO2 e sulle automobili della ong Terra!. «Nel ’98, su propria iniziativa, Acea, l’associazione dei costruttori europei, disse che in 10 anni le emissioni medie sarebbero scese fino alla soglia dei 140 grammi di CO2 per km» spiega Monetti. «Ma dieci anni dopo, nel 2008, la media era di 160 grammi. Quindi lo stesso “ottimismo” di Acea (e non è che fosse di per sé enorme) venne smentito». Di fatto, quello dei trasporti era e resta tuttora il settore che offre la peggiore performance in termini degli obiettivi di Kyoto.
Constatato che l’impegno su base “volontaristica” dell’industria non ha portato a risultati soddisfacenti, l’Ue ha preso provvedimenti. «L’Unione è entrata in gioco a causa della percezione di uno scarso impegno da parte dell’industria automobilistica» conferma Monetti, «magari impegno limitato anche da fattori non controllabili dai costruttori, ma la sensazione era che la cosa fosse stata presa un po’ sottogamba. I trasporti come settore, pur avendo investito molto in passato, non sono riusciti di fatto a limitare le emissioni. Negli ultimi anni anzi si è registrato un bel balzo verso l’alto».

Ue vs. industria
A fine 2008 Bruxelles approva il cosiddetto “pacchetto 20-20-20”, che impone di ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare al 20% il consumo di fonti rinnovabili, il tutto entro il 2020. Uno dei provvedimenti “a cascata” del pacchetto riguarda nello specifico le automobili, fissando già per il 2012 un limite alle emissioni di CO2 di 120 grammi per km, così diviso: si dovrà scendere fino a 130 grammi grazie al miglioramento tecnologico dei motori, dieci grammi ulteriori saranno ottenuti da fonti di altro genere, come pneumatici e biocarburanti.
La “resistenza” dell’industria ha ottenuto alcune concessioni importanti. In primo luogo limiti valgono per la media dell’intera gamma di una casa automobilistica, non per il singolo modello. Inoltre nel raggiungimento dei 120 grammi è stato introdotto un elemento di gradualità: nel 2012 sarà sufficiente che rientri nella soglia il 65% delle vetture, per salire progressivamente al 100% della gamma entro il 2015. Per il 2020 però, all’appuntamento con la verifica dei risultati complessivi del pacchetto 20-20-20, è previsto un limite più stringente per le emissioni delle auto: 95 grammi di CO2 per km. Da notare poi che per far rispettare le regole è previsto un sistema di sanzioni: gli accordi non sono solo una dichiarazione di intenti.
Nel complesso, commenta Viviana Valentini dell’Ufficio scientifico di Legambiente, se l’industria farà il proprio dovere i conti dovrebbero tornare. «Come obiettivo di breve, quello del 2012 è un buon obiettivo» dice Valentini. «Il problema è capire quali saranno gli sviluppi per gli anni successivi. Per ora le valutazioni dell’UE ci trovavano abbastanza favorevoli, la concessione alla pressioni dell’industria è rimasta entro limiti accettabili, ma solo in quanto sul lungo termine ci poniamo target ulteriori».
Quel che più conta è che da quando è entrato in vigore il provvedimento i costruttori sembrano avere, finalmente, intrapreso un percorso più virtuoso. «Gli ultimi dati disponibili indicano che la distanza fra target e medie delle emissioni si riduce sempre di più», afferma Viviana Valentini. «Si dimostra allora che la resistenza da parte delle case automobilistiche non era dettata da reali limitazioni tecniche. A volte denunciare costi esorbitanti è solo un modo per inseguire la via più facile. Ma gli stessi costruttori, una volta pungolati, dimostrano che ci stanno riuscendo».

Il rapporto di Transport & Environment
A conferma di queste parole giungono i dati del quinto rapporto dell’organizzazione ambientalista europea Transport & Environment (T&E), pubblicato sul finire dello scorso anno, che mostrano come nel 2009, primo anno di piena implementazione della nuova normativa, la media delle emissioni di CO2 per km abbia registrato un calo record pari al 5,1%. Ciascuno dei 14 principali costruttori europei è riuscito a ridurre le emissioni medie della propria gamma. È vero che lo spostamento della domanda verso modelli più piccoli ed economici ha in parte contribuito al risultato, ma lo studio del T&E stima comunque che l’effetto dell’investimento in tecnologie più eco-friendly abbia influiti sulla riduzione in misura maggioritaria, rispetto a queste dinamiche di mercato.

Fuori i nomi
A questo punto, per il fleet manager che insegue obiettivi di risparmio suicosti e di rispetto di green policy sempre più ambiziose, è fondamentale sapere quali costruttori si stanno muovendo meglio per produrre auto che consumano meno e meglio. E soprattutto al passo con il mondo dei trasporti di un futuro sempre più prossimo. I maggiori progressi arrivano da Oriente: Toyota, con un calo del 10% nell’emissione di CO2 per km, non solo guida la classifica del miglioramento per il 2009, ma è in assoluto la casa meglio posizionata per raggiungere gli obiettivi europei del 2015. Di fatto, il costruttore giapponese ha tagliato le emissioni molto più del minimo indispensabile per tenersi in linea con gli obiettivi Ue, mostrando una spiccata “sensibilità ecologica”.
Fra i più efficaci nel tagliare le emissioni, a Toyota si affiancano altre case del Sol Levante come Suzuki e Mazda e colossi occidentali come Daimler e Ford: nomi accomunati dall’aver ottenuto un calo delle emissioni pari almeno al 3% attraverso le tecnologie di alimentazione e non grazie alla dimensione media delle auto vendute.
Se guardiamo alle emissioni in senso assoluto (e non alle percentuali di riduzione), è Fiat la casa automobilistica con il minore livello medio di emissioni in Europa. «Fiat aveva fatto enormi progressi all’inizio, poi ha rallentato un po’» dice Valentini, aggiungendo che a Torino per far fronte agli impegni sul fronte dell’inquinamento «hanno puntato sull’auto di piccola taglia e sui modelli ecologici, concentrandosi meno sui miglioramenti di efficienza nella gamma tradizionale».
Una particolarità della normativa è che il limite dei 130 grammi per km è in realtà un valore da adattare “su misura” per ciascun costruttore in funzione del peso effettivo del suo parco auto. Per intenderci, una casa che produce utilitarie avrà una soglie più stringente di chi produce grosse berline. Per questo, una casa automobilistica può avere la media di emissioni più basse del continente (come Fiat) ma un’altra può essere molto più vicina al proprio obiettivo (in questo caso Toyota).

Vietato barare
Il quadro in generale non soddisfa ancora Maria Grazia Midulla, responsabile Clima ed energia del Wwf Italia, secondo cui «le case automobilistiche operano troppo sul contingente: è vero che sono pronti prototipi molto innovativi, io stessa ho provato a Cancún una Nissan elettrica molto più semplice e piacevole da guidare di alcuni modelli ibridi già circolanti, ma l’industria da questo punto di vista resta molto indietro». In particolare, aggiunge, «quella italiana a cominciare da Fiat, nonostante l’eccellenza di centri di ricerca situati proprio a Torino come il Politecnico».

Alleanze tra costruttori
Tra le pieghe del regolamento emerge la possibilità, da parte di diversi costruttori, di associarsi per ottenere che il calcolo delle emissioni medie sia effettuato su un insieme più ampio di vetture. Una possibilità, denuncia il rapporto di T&E, che potrebbe essere sfruttata per aggirare i limiti da parte un costruttore poco efficiente. Per esempio, se la casa A “sfora” rispetto alle proprie soglie di emissioni mentre la casa B è notevolmente al di sotto delle proprie, le due potrebbero allearsi: il margine positivo di B potrebbe compensare del tutto o in parte gli “sforamenti” di A, riducendo o eliminando le sanzioni per il soggetto inadempiente.
Non è preoccupata Viviana Valentini, secondo cui il vero problema è che «l’industria fa lobbying per ottenere target più morbidi: una volta stabiliti, gli obiettivi sono efficaci grazie anche alla differenziazione per peso e all’obbligo di comunicare le emissioni per ciascun modello, un elemento di forte disincentivo a “barare” anche a livello di immagine». Le fa eco Monetti: «Il rischio di un aggiramento dei parametri può sussistere nel breve periodo, soprattutto per quei brand che sempre hanno prodotto auto per i segmenti più alti», riconosce l’esponente di Terra!, che però precisa come «nel medio-lungo termine saranno le leggi di mercato a costringere ad abbandonare questa tattica di “resistenza” al cambiamento: il mercato premia già oggi l’elettrico, secondo sondaggi recenti e autorevoli tre quarti degli italiani sono favorevoli all’idea di comprare un’autoibrida o elettrica». All’atteggiamento del mercato e alle dinamiche della domanda guarda anche Maria Grazie Midulla: «Anche le aziende, soprattutto quelle che gestiscono parchi auto di grosse dimensioni, possono fare la differenza, convertendo progressivamente almeno quella parte della flotta destinata agli spostamenti in città o entro un raggio limitato».
I progressi a livello tecnologico e normativo sono premesse; le politiche di offerta dei costruttori le traducono in opportunità più concrete. Ma al tutto deve far seguito, perché si ottengano risultati concreti, una sensibilità equivalente da parte degli utenti, siano essi acquirenti privati o aziende, o ancora noleggiatori di lungo termine. Il 2009 è stato indubbiamente l’inizio di una svolta, segnando progressi-record nel cammino verso l’auto ecologica. Ma l’eccezionalità di quell’anno, tra crisi globale, incentivi pubblici e sconvolgimento dei mercati, fa sì che i giochi ancora quanto mai aperti.

 

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