Anche a livello di catene alberghiere prosegue il processo di consolidamento del mercato. E l’espansione dei grandi gruppi internazionali sembra riguardare anche l’Italia, come dimostrano i recenti progetti di investimento. Sono in fase di apertura, infatti, due nuovi hotel Marriott a Roma, mentre a Milano la catena americana ha realizzato una partnership con la casa di moda Bulgari per l’apertura a breve nel centro di Milano di una nuova struttura di lusso. Kempinsky, invece, ha deciso di puntare sulla Sicilia, inaugurando un albergo a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani; mentre la catena spagnola Ac Hotels ha in programma l’apertura di circa 80 strutture nelle principali città del nord e del centro, con il nuovo marchio H10. Tra queste, un nuovo albergo nell’area del Lingotto a Torino entro il 2005.
Tuttavia, sebbene questi investimenti daranno impulso alla categoria dei cinque stelle (attualmente in Italia sono 144 gli alberghi di questa categoria, contro gli oltre 14mila tre stelle), non incidono in maniera significativa sull’anomalia che, da sempre, caratterizza il mercato italiano, parcellizzato in migliaia di alberghi indipendenti, spesso a conduzione familiare e che non vantano alcun brand internazionale. Secondo i dati di Istat e Federalberghi, infatti, nel nostro Paese vi sono ben 33.421 strutture, per un totale di 975.601 camere. E di queste, pochissime appartengono a catene internazionali. «In Italia, gli alberghi “incatenati” sono circa il 4% del totale – conferma Renzo Jorio, presidente dell’Aica, Associazione italiana catene alberghiere aderente a Confindustria, e direttore finanziario di Sifalberghi -. Pochissimi, soprattutto se paragonati al resto d’Europa, dove la media si aggira intorno al 25-30%».
Espansione difficile
Insomma, tra migliaia di pensioni “Miramare” e “Miramonti”, i grandi marchi faticano a espandersi. Naturalmente, ci sono delle eccezioni. Sifalberghi, rappresentante in Italia del gruppo francese Accor, ad esempio, negli ultimi quindici anni ha aperto nel nostro paese 35 strutture, a cui presto se ne aggiungeranno altre sette, attualmente in costruzione. Ma anche se l’Italia si sta gradatamente aprendo alle realtà europee, l’evoluzione è molto lenta. E sulla situazione non incide certo favorevolmente la crisi degli ultimi anni. «Nel 2003 – spiega Jorio – il fatturato degli alberghi Aica (35 catene alberghiere, presenti in 18 regioni e 56 province italiane, per un totale di oltre 45mila camere, ndr) ha registrato una flessione dell’8% nei volumi e del 5% nei ricavi medi per camera rispetto al 2002. Il motivo del calo è da ricercare, più che nella delicata situazione internazionale e nella drammatica diminuzione dei turisti stranieri, poco incentivati dall’euro forte, nella pesante crisi economica nazionale. La clientela delle catene alberghiere, infatti, è prevalentemente business. È inevitabile, dunque, che il settore risenta della tendenza al contenimento dei costi messa in atto dalle aziende sia per quanto riguarda le trasferte che il settore congressuale e incentive. Inoltre, lo scorso anno anche il comparto leisure ha sofferto enormemente della contrazione del reddito delle famiglie. Gli italiani viaggiano sempre meno, e ciò si ripercuote negativamente sull’hôtellerie».
A conferma del fatto che il mercato alberghiero è uno dei settori che maggiormente risentono dell’andamento dell’economia nazionale, lo scorso ottobre è stata pubblicata una survey del Centro Studi Assolombarda, dal titolo: “Le attività degli alberghi high level in provincia di Milano dal 1992 a oggi”. La ricerca, che prendeva in esame un campione di trenta strutture a 4, 5 e 5 stelle lusso nella metropoli business per eccellenza, ha evidenziato un elevato coefficiente di correlazione tra il fatturato per camera e l’indice di produzione industriale nazionale negli ultimi 12 anni: ben 0,81% (mentre era addirittura 0,89% il valore del coefficiente di correlazione fra il fatturato delle camere e l’indice di produzione a livello europeo).
Le cause
Ci sono scarsi spiragli di ottimismo, dunque? «Al contrario – dichiara Jorio. Ci auguriamo di essere giunti finalmente al termine di una fase negativa. I dati rilevati dall’Osservatorio Aica nel mese di gennaio autorizzano, infatti, a sperare in una risalita. E segnali simili sono stati registrati nell’ottobre scorso. Ma perché il settore guadagni nuovamente terreno è indispensabile una reale ripresa economica».
Ma al di là dei venti di crisi che da tempo minacciano il settore, l’arretratezza del mercato italiano è legata anche a numerose motivazioni di ordine legislativo, urbanistico e culturale. «Se la presenza delle catene alberghiere internazionali in Italia è ridotta, la causa è da attribuire in larga parte alle normative vigenti, che impongono parametri che non hanno eguali in nessun altro paese del Vecchio Continente e, di fatto, rendono più onerosa la realizzazione di nuove strutture – sottolinea Jorio -. Ad esempio, tutte le nuove camere devono avere una superficie di 14 metri quadrati, contro la media europea di 9. Uno standard assurdo, che costringe le catene ad affrontare investimenti troppo pesanti e che si ripercuote negativamente soprattutto sulla diffusione dei marchi economici. Va detto, oltretutto, che alle strutture già esistenti non viene richiesto alcun adeguamento a questi parametri».
«Un grosso ostacolo all’espansione delle catene internazionali è la presenza di una burocrazia eccessivamente farraginosa – concorda Alan Mantin, regional marketing director di Hilton International -, che induce gli investitori a privilegiare mercati più “fluidi” e trasparenti».
«In Italia – sostiene Flavio Serra, direttore generale di Best Western Italia – il territorio è soggetto a maggiori vincoli urbanistici rispetto ad altri Paesi. Ciò rende difficile realizzare nuove costruzioni, soprattutto nelle grandi città e nelle destinazioni business. Inoltre, gli alberghi italiani sono costituiti in prevalenza da hotel di piccole e medie dimensioni, gestiti direttamente dai titolari. E hanno una struttura finanziaria che rende estremamente difficile l’ingresso (e la condivisione degli utili) di investitori istituzionali o franchising».
Quelle famigerate stelline
A questi problemi si aggiunge quello, non meno importante, della classificazione delle strutture. «Gli standard che definiscono un albergo a cinque, quattro o tre stelle sono assolutamente inadeguati e fanno riferimento a fattori di scarsa importanza» afferma Jorio. Un problema, questo, che disincentiva la presenza in Italia della clientela internazionale. Quando un turista straniero prenota un albergo nel nostro Paese, infatti, non ha la garanzia di trovare un servizio all’altezza delle stelline esibite sull’insegna. E talvolta va incontro a sorprese poco gradevoli. «La disattenzione nei confronti di questi aspetti pesa negativamente sul settore. E si ripercuote anche sui fatturati – afferma Renzo Jorio -. Lo dimostra il fatto che in altre nazioni, dove il settore alberghiero è regolamentato da norme ben calibrate e trasparenti, l’hôtellerie negli ultimi anni è notevolmente cresciuta. Basti pensare allo sviluppo del settore in Spagna (dove attualmente operano 5700 alberghi per un totale di circa 443mila camere, ndr)».
La via del franchising
La difficoltà di penetrazione delle catene alberghiere sul mercato italiano non riguarda solamente le strutture di proprietà, ma anche gli alberghi in franchising. «Il problema, in questo caso, consiste nell’eccessiva rigidità degli standard applicati dalle catene alberghiere internazionali, che rende difficile la conversione di hotel già esistenti – sostiene Flavio Serra -. Best Western ha ovviato all’inconveniente stabilendo una serie di standard rigorosi, ma non difficilmente implementabili. Gli hotel affiliati, ad esempio, devono introdurre nelle stanze circa settanta dotazioni minime (ferro da stiro, bollitore, tv a colori, specchio a figura intera ecc.). E devono aderire a parametri rigidissimi per quanto riguarda la pulizia e la manutenzione delle strutture. Però non sono costretti a modificare il design (tranne che nelle strutture della categoria “Premium”) e hanno la possibilità di mantenere la propria individualità.
«Inoltre, Best Western ha risolto il problema dei costi elevati a carico dei franchisee chiamando gli albergatori affiliati a condividere una quota della società – aggiunge Serra -. Questa formula, oltre a ridurre i costi, garantisce una grande flessibilità rispetto ai contratti di franchising tradizionali». Una strategia di successo, dal momento che Best Western (che vanta oltre 4000 alberghi in tutto il mondo e prevede nei prossimi mesi l’ingresso di 380 nuove strutture), nel corso del 2003 ha inaugurato in Italia otto nuovi alberghi (sette quattro stelle e un tre stelle). E nel 2004 intende continuare l’espansione, aprendo altre strutture in località in cui il marchio non è presente, come Assisi, Cortina, l’Isola d’Elba, Taormina.
Neofita nel campo del franchising è invece il gruppo Hilton, che di recente ha annunciato la decisione di adottare, per la prima volta nella sua storia, questa formula di aggregazione in Europa. Una scelta strategica che porterà sicuramente a una maggiore diffusione del marchio sul mercato italiano (attualmente Hilton è presente in Italia con quattro strutture a cui si aggiungerà, alla fine del 2005, l’albergo veneziano Molino Stucky di Venezia, grazie all’accordo con Acqua Pia Antica Marcia). «In passato Hilton si è sempre rivolta a strutture di proprietà o in gestione, e ciò ha influito sulla ridotta presenza nel mercato italiano, costituito perlopiù da alberghi indipendenti desiderosi di mantenere la propria autonomia – sottolinea Alan Mantin -. Il gruppo non aveva quella “cultura” del franchising che sarebbe stata indispensabile. Nel 1987, però, Hilton International ha stretto un’alleanza commerciale con Hilton Corporation, che gestisce 2000 alberghi, la maggior parte dei quali proprio in franchising. E ha potuto quindi accedere a un know how consolidato in questo ambito. A ciò si è aggiunta, nel 2001, l’acquisizione della catena scandinava Scandic, che ha segnato l’ingresso di Hilton nel medium market, caratteristico degli alberghi in franchising. Grazie all’unione di questi due fattori, oggi siamo in grado di proporre nell’Europa centrale (e dunque anche in Italia) alberghi di fascia media in franchising con il marchio “Scandic by Hilton”. In Scandinavia queste strutture manterranno il brand Scandic, mentre nel resto del continente proseguirà l’espansione degli alberghi di fascia alta a marchio Hilton».
Una via percorribile
A detta degli esperti, il franchising sembrerebbe una delle strade più facilmente percorribili per accedere a un mercato complesso come quello italiano. «Grazie al franchising, la situazione del nostro mercato sta lentamente cambiando – afferma Mantin -. Le strutture indipendenti cominciano a rendersi conto che la presenza in Internet non basta a garantire sufficiente visibilità e che l’affiliazione a un marchio è fondamentale per ampliare il proprio business».
«La dispersione delle catene alberghiere sul territorio nazionale e la conseguente debolezza dei marchi, è un fattore che impedisce agli albergatori di accedere alla clientela internazionale, molto più abituata rispetto a noi a scegliere un hotel in base al brand – aggiunge Renzo Jorio -. Le strutture indipendenti, dunque, dovrebbero essere invogliate ad aderire a criteri associativi e di franchising per incrementare i fatturati».
«I gruppi americani sono molto interessati a espandersi sul mercato italiano – conclude Serra -, ma per farlo, secondo me, devono comprendere l’importanza di applicare formule di franchising più flessibili. In ogni caso, sono convinto che la diffusione dei marchi nel nostro Paese sarà un processo lento. La peculiarità del mercato italiano, infatti, fa sì che gli albergatori indipendenti non siano poi così penalizzati dalla mancata affiliazione a un marchio».