Si è sempre detto che la travel policy è il “cuore del sistema business travel”, e di questo argomento si parla davvero tanto: digitando nel motore di ricerca di Google i termini “travel policy”, si ottengono ben 3 miliardi di risultati in 0,5 secondi. Quanti eventi, seminari e corsi di formazione propongono nel loro programma l’adagio (ormai un po’ “consunto”) “Come implementare una buona travel policy”? Quante travel management company, nelle loro brochure, dichiarano di essere in grado di supportare le aziende in una corretta gestione delle politiche di viaggio? E quante imprese, quando intavolano una trattativa commerciale con le agenzie, richiedono l’implementazione della travel policy o addirittura di produrne (magari in fase di gara) alcuni esempi?
Proviamo allora a fare un po’ d’ordine, cominciando a stabilire di che cosa si tratta esattamente. Una definizione abbastanza completa di travel policy potrebbe essere: “un documento procedurale che norma le modalità attraverso le quali si attua una corretta gestione delle missioni e dei viaggi d’affari aziendali. È uno strumento di supporto alla pianificazione dei viaggi d’affari e al controllo qualitativo della spesa; può anche essere un indicatore della capacità dell’azienda di cogliere le opportunità di risparmio offerte dal mercato. È tendenzialmente redatta dall’area risorse umane delle singole imprese”.
Da queste frasi si deduce che, in effetti, la travel policy ha un’importanza rilevante nella gestione delle trasferte lavorative, ma soprattutto che è trasversale all’intera filiera aziendale delle realtà coinvolte nel processo di viaggio; da ciò derivano alcuni assunti fondamentali:
· non esistono travel policy valide per tutti; ogni azienda (pur dello stesso settore merceologico) è diversa dalle altre, e pertanto non è assolutamente detto che la travel policy di un’impresa, ancorché funzionante e portatrice di risultati economici, si possa adattare a un’altra. Anzi, molto spesso (se non sempre) questa metodologia non darà i frutti sperati. Addirittura reparti aziendali differenti potrebbero avere necessità di sottostare alle regole di policy diverse tra di loro (e non parliamo in questa fase di “grade” aziendale dei viaggiatori);
· le politiche di viaggio devono essere strumenti adattabili e flessibili; il mercato dei viaggi d’affari si sta caratterizzando per un livello di volatilità dei prezzi di acquisto simile a quella riscontrabile nel mercato degli strumenti finanziari. Dunque, se le aziende vogliono cogliere le opportunità derivanti dalla dinamicità del “fattore pricing”, devono fornire ai propri viaggiatori regole altrettanto dinamiche e adattabili; policy troppo “ingessate”, e chiuse nelle “torri d’avorio” mal si confanno a logiche dinamiche. Con questo non ci sentiamo di considerarle a priori negative, ma semplicemente non aggiornate; d’altro canto, però, la rigidità di approccio alle trasferte lavorative potrebbe essere un “must” dal quale l’azienda non ha alcuna intenzione di derogare;
· ogni travel policy dovrebbe essere tarata su esigenze, cultura e modelli di consumo aziendali; una buona travel policy non può permettersi di prescindere da un fattore chiave, ovvero la conoscenza del modello di consumo e comportamentale dei viaggiatori. Abbiamo visto come questo documento definisca alcune “regole” rispetto a un’attività ben chiara e definita, ovvero la gestione delle trasferte lavorative, attività “non core” nel panorama della mission aziendale. Questo significa che la travel policy si innesta in un contesto di regole molto più ampio, che abbraccia tutte le attività aziendali. Ne consegue che le regole da essa definite debbano essere in linea con tutte le altre, in una parola allineate con la “cultura aziendale”. In questo scenario non possono ovviamente funzionare modelli in cui un’azienda chiede all’esterno (travel management company o consulenti) dei modelli di travel policy, per implementarli internamente.
Un documento “vivo”
Una corretta travel policy (sia essa da implementare ex novo o da modificare) deve partire da quanto è attualmente presente in azienda, ovvero il modello di consumo; con tale dizione si intende un’analisi approfondita e strutturale dei dati di spesa, al fine di far emergere trend e specificità che caratterizzano l’impresa nel variegato panorama di acquisto del settore viaggi.
La (quasi) totalità delle aziende si caratterizza per necessità di ottimizzazione e contenimento della spesa di viaggio. Nel migliore dei mondi possibili, a generiche indicazioni di contenimento dei costi dovrebbe far seguito la definizione di obiettivi concreti, reali e misurabili. Esistono interazioni (potenziali o reali) tra queste indicazioni (tendenzialmente orientate all’area acquisti dell’azienda) e la travel policy? Assolutamente sì, poiché per raggiungere gli obiettivi di saving identificati i viaggiatori devono sottostare a regole in linea con quanto offerto dal mercato di riferimento.
Il mercato “esterno” con cui la travel policy si interfaccia ha una regola di base, ovvero “la quasi assoluta mancanza di regole”; questa apparente contraddizione in termini è legata allo “yield management”, cioè la gestione dell’offerta da parte di vettori ed alberghi in funzione della domanda. Per fare fronte a questa situazione complessa, ove i margini di intervento e presidio da parte della componente finale della filiera del servizio (gli utilizzatori) sono tendenzialmente limitati, la travel policy si deve configurare come un documento “vivo”, che dovrebbe definire un rapporto ottimale tra le trasferte di lavoro, le esigenze aziendali e le regole imposte dal mercato; secondo questa accezione, la travel policy dovrebbe essere oggetto di aggiornamento costante. Poiché, però, come abbiamo visto in precedenza, questo documento fa riferimento ad attività aziendali di tipo “non core” e la percezione culturale del settore dei viaggi d’affari non è elevata in azienda, riteniamo che una revisione semestrale sarebbe ottimale. Poiché, però, il timing standard di revisione, nel nostro Paese, si attesta tra i 4 e i 5 anni (in concomitanza con la revisione dei contratti di servizio) riteniamo che anche solo una revisione su base annuale possa essere accettata.
Relativamente al “mercato interno”, ovvero ai viaggiatori, la travel policy si innesta su una situazione di base sintetizzabile nella seguente affermazione: “ in un viaggio di lavoro sono presenti due clienti in uno”, ovvero l’azienda committente e il viaggiatore.
Molto spesso questi clienti hanno obiettivi antitetici, ottimizzare i costi il primo (agendo eventualmente anche sul livello qualitativo dei viaggi dei dipendenti), viaggiare al meglio e con il massimo
del confort(lusso)il secondo. La travel policy dovrebbe contribuire a far convergere gli obiettivi diversi; in questa vece dovrebbe contenere logiche di change management finalizzate al superamento delle resistenze di base.
Il “grade” delle risorse
Purtroppo la maggioranza degli “incipit” delle travel policy del nostro Paese recita più o meno così: “ la procedura di viaggio e rappresentanza ha valore per tutto il personale dell’azienda a eccezione di…”. È sintomatico che, se la parte iniziale di una procedura è l’identificazione di coloro che ne sono esentati, a ruota troveremo norme che regolano, molto spesso secondo logiche di upgrade, le risorse aziendali che viaggiano insieme a coloro per i quali le regole non valgono; va da sé che questa situazione è sintomatica di un non orientamento aziendale alla compliancy, e che, in definitiva, il tasso di redemption della travel policy non può che essere generalmente basso. Non bisogna oltretutto dimenticare che nelle imprese esistono viaggiatori che, nel tempo, e in forza dell’alto numero di trasferte effettuate, hanno realizzato una specializzazione importante, rispetto alle logiche di mercato, su come evadere le regole. La gestione dei cosiddetti “professionisti della trasferta” si configura come un’attività di difficile attuazione, che funziona se e solo se, come precedentemente indicato, la travel policy si basa su norme e regole oggettivamente verificabili e attuabili, senza tema di interpretazione (la “porta” dell’evasione).
Logiche che valgono per tutti
Non esistono travel policy valide per tutte le aziende. Vi sono però logiche di base che possiamo considerare come “trasversali e/o propedeutiche” a tutte le aziende nel rapporto con le travel policy:
· a prescindere dalla dimensione dell’azienda e dal volume di viaggi d’affari generato, non bisogna aspettare di capire di aver bisogno di una travel policy per implementarne una. Realizzare di avere una necessità in un momento di necessità significa già trovarsi in una condizione di emergenza. Presumibilmente si tenderà a “mettere delle pezze” senza una logica strutturata;
· la travel policy si configura come “facilitatore” del processo di gestione dei viaggi d’affari aziendali;
· troppo spesso la travel policy, dall’ambito procedurale nel quale trova la sua ragione di esistere, si trova a sconfinare non solo nell’operatività pura, ma anche negli aspetti contrattuali legati ai livelli di Servizio (Sla/Kpi). In questa accezione si snatura;
· è fondamentale comprendere e analizzare a fondo che cosa inserire in una travel policy; ogni elemento ha un suo costo (Tco) tendenzialmente definibile;
· la travel policy dovrebbe poter essere diversificata per linee di prodotto e per tipologia di utenza.
In termini di orientamento generale rispetto alle situazioni su cui dettare le regole di utilizzo, la travel policy può avere approcci diversificati in funzione degli obiettivi specifici:
· focus sulle destinazioni;
· accettabilità delle spese connesse;
· attinenza al budget aziendale.
I punti precedenti tratteggiano una situazione nella quale il potenziale supporto fornito dai viaggiatori e dalla loro conoscenza del mercato (il reparto delle risorse umane si caratterizza come uno di quelli che viaggiano di meno in azienda) assume un’importanza fondamentale per una corretta redazione. Per assurdo, il supporto dei viaggiatori si configura addirittura come maggiore di quello fornito dalla tmc.
In definitiva, la più “up-to-date” delle travel policy è quella che nasce in una logica di:
· conoscenza del mercato di riferimento;
· conoscenza delle logiche e della cultura aziendale;
· coinvolgimento di tutti gli attori della filiera del servizio (dalle risorse umane fino al controllo di gestione, passando per gli acquisti, l’IT e i servizi generali);
· chiari e definiti obiettivi di riduzione dei costi;
· recepimento del contributo (nel continuo) dei viaggiatori. In questo ambito lo strumento delle “survey” può essere il veicolo ideale per raccogliere indicazioni e suggerimenti.
Futuro nella mobility
Così come l’abbiamo sviscerata, la travel policy ha un futuro ipotizzabile? La risposta è complessa perché legata al futuro stesso del segmento dei viaggi d’affari. Ricerche e studi internazionali hanno messo in parallelo il prodotto interno lordo delle principali economie mondiali (sia emergenti che consolidate) con lo spending in viaggi d’affari, e i 2 grafici generati sono risultati di fatto sovrapponibili. Questa situazione ha portato gli analisti ad affermare senza tema di errore che il business travel è business a tutti gli effetti, e con tale dignità deve essere affrontato e gestito.
Si pone pertanto la questione della gestione del settore secondo modelli tradizionali o secondo modelli di nuova generazione; la volatilità del mercato (con un particolare focus sulle logiche di pricing) ci porta a propendere per questa seconda soluzione. In questo contesto si innesta la crescente necessità da parte delle aziende (specialmente quelle di medio-grandi dimensioni) di controllare tutti gli spostamenti di tutti i dipendenti, a prescindere che si tratti di viaggi d’affari veri e propri. Questa situazione colloca la nostra travel policy nel più ampio scenario della mobility aziendale, che prevede sia la gestione di un passeggero che parte da Milano per visitare le filiali di Londra o Palermo (business travel), sia quella di un dipendente che si muove tra due filiali all’interno dello stesso comune. Già oggi possiamo affermare che esiste più di una policy che norma (in modo indipendente dalle altre procedure aziendali) gli spostamenti; oltre la travel policy è l’oggetto della nostra analisi, ricordiamo la car policy, che norma la gestione delle autovetture aziendali.
“On top” a tali policy, abbiamo la cosiddetta procedura di trasferta, ovvero l’ambito procedurale (che ha ramificazioni contrattuali e/o sindacali) che norma la gestione della trasferta dal punto di vista amministrativo, quindi che determina le regole alla base del riconoscimento di diarie, piè di lista ecc.
È fondamentale rilevare come dette policy possano convivere all’interno della medesima trasferta lavorativa; pensiamo ad esempio un viaggio d’affari in cui una persona con autovettura assegnata (quindi normata dalla car policy) si reca in aeroporto, ove prenderà un volo (attività viceversa normata dalla travel policy), per recarsi in una destinazione. Una volta arrivato, prenderà un taxi, pagherà spese cash e le metterà in nota spese (normativa di trasferta). A seconda della durata del viaggio potrà ricevere diarie diversificate (normativa di trasferta vs. contratto di lavoro e concertazione sindacale).
È indubbio il fatto che l’incrocio di più policy (che hanno obiettivi e finalità diversificate) prevede dei controlli di tipo incrociato, fatti da risorse e reparti diversi tra di loro.
Ritornando alla domanda (come scritto “apparentemente semplice”) che ha scatenato tale ragionamento, proviamo a rispondere che se, a nostro avviso, la mobility è il futuro del business travel (e conseguentemente fonte di crescita ed ampliamento dell’area di influenza di chi lo gestisce), per proprietà transitiva, la mobility policy è il futuro della travel policy. Con mobility policy siamo ad intendere il conferimento di tutte le policy che, a qualche titolo, prendono in esame movimentazioni del personale aziendale in un’unica “super policy”. Conferimento ha significato tendenzialmente ampio, in quanto con esso intendiamo anche la verifica delle sovrapposizioni (procedurali e di controllo )che necessariamente saranno presenti in tale attività.
Importanti progetti relativi alla cosiddetta “integrated mobility” sono agli albori nel nostro Paese, mentre ad essi fanno riferimento casistiche importanti e significative in altri Paesi (europei e non); in buona parte di tali progetti il punto di partenza (fatto salvo il commitment aziendale senza il quale non si procede ad alcunché) è stato l’unificazione delle norme procedurali in un’unica “mobility policy” (la super policy di cui sopra), attività la cui analisi, creazione e gestione risiede si all’interno dell’area risorse umane, ma ha delle forti implicazioni da e verso gli altri reparti aziendali coinvolti, conseguentemente diventa un’attività che, dalla “torre d’avorio” da cui siamo partiti diventa “trasversale” alla filiera aziendale del servizio.
Risulta sempre essere (esattamente come abbiamo iniziato) il “cuore del sistema”? Sicuramente potrebbe assumere anche in questo caso un’accezione più ampia e trasformarsi da “cuore in cervello”, assumendo quindi una più ampia sfera di influenza, a vantaggio delle logiche di controllo e del raggiungimento degli obiettivi attesi.
Testo di Dario Bongiovanni, Mission n. 1, gennaio-febbraio 2012