La scatola cinese

Al settimo piano di un palazzo d’epoca in South Henan Road, a Shanghai, a meno di un chilometro dal Bund, c’è il quartier generale di CITS American Express, la joint venture creata 12 anni fa dalla travel management company americana per presidiare il promettente mercato cinese. Giù in strada un flusso interminabile di auto, motorini e pedoni scorre veloce nel cuore economico e finanziario della Cina contemporanea. Gli altri uffici sono a Pechino e Guangzhou (Canton).
«Siamo entrati nel mercato nel 2002 in occasione dell’ingresso della Cina al WTO. American Express, che aveva già una collaborazione con CITS (China International Travel Service), ha creato questa joint venture con una partecipazione di minoranza (49%). Le licenze per l’emissione dei biglietti aerei domestici non possono essere rilasciate ad aziende che abbiano un capitale di maggioranza straniero. Sono molti i settori con restrizioni di questo tipo.
«Io sono arrivato in Cina nel 2007, dopo diverse esperienze internazionali, dall’India, il mio precedente incarico – prosegue Marco Pellizzer, che ha iniziato la sua carriera in American Express nel 1995 -. Qui lo scenario è completamente diverso, il tempo è più denso. Sono passati 7 anni, e in altri mercati più maturi per cui ho lavorato, come la Gran Bretagna, gli Usa o anche il Messico, avrebbero potuto essere 17. Il dinamismo che c’è qui è incredibile. I tempi delle istituzioni sono lunghi ma, una volta decisi, i cambiamenti sono immediati».

Quanto vale questo mercato?
«Gli ultimi dati diffusi alla GBTA China Conference parlano di un mercato gigantesco, con un volume di spesa di 225 miliardi di dollari all’anno. Gli Stati Uniti, che sono il primo Paese al mondo, valgono 276 miliardi. Secondo le stime della GBTA nel 2016 ci sarà il sorpasso, e non è improbabile che questo avvenga, forse già dalla fine del 2015. Dopo Usa e Cina il terzo mercato più grande è rappresentato dal Giappone (62 miliardi di dollari) e chiaramente il distacco è enorme».

Può illustrare le tendenze del business travel in Cina?
«Cresciuto velocemente a partire dal 2007, oggi il mercato sta maturando. Dalla ricerca “Barometer of business travel management in China”, che American Express Business Travel realizza ogni anno per identificare le tendenze del settore nella Cina continentale (sono escluse Hong Kong e Macao), e che abbiamo presentato lo scorso novembre al China Business Travel Forum, emergono sei trend significativi. Primo: le compagnie cominciano a capire l’importanza di avere un travel manager dedicato alla gestione delle spese di viaggio dei dipendenti (47%). Cresce l’attenzione delle alte direzioni per la reportistica (il 36% dei manager vuole report mensili). Secondo: anche in Cina il principale obiettivo del travel manager è la riduzione dei costi (71%). Questo non deve sorprendere perché le stesse problematiche che le aziende hanno a livello mondiale esistono anche qui. Le spese aeree impegnano il 25% del budget, il restante 75% è distribuito tra hotel, trasporti via terra, Mice. È interessante notare che gli hotel sono la voce dove c’è meno rigore nel gestire i costi (84%). Le aziende iniziano a capire che vi sono lacune che possono essere colmate. Terzo: le politiche di gestione dei viaggi delle compagnie cinesi sono sempre più complete. Soltanto il 28% delle aziende intervistate (più piccole o con volumi di spesa limitati) non ha una travel policy. Il problema della Cina, e questo è il quarto trend, è che anche quando la politica di viaggio esiste è difficile assicurarsi che venga applicata. Le aziende cinesi hanno l’abitudine di usare più di una travel agency allo stesso tempo: di norma tre agenzie (35%). Questo Paese è talmente grande che in passato non c’era nessuno in grado di coprire tutte le aree geografiche, soprattutto fino alla fine del 2006, quando è entrato in vigore il biglietto elettronico. In Cina la negoziazione regna sovrana e c’è la convinzione di poter ottenere prezzi più bassi mettendo in competizione più fornitori. Qual è il problema? Frammentando i volumi su agenzie diverse la capacità di ottenere report consolidati, che diano una visione globale della spesa e consentano di modificare la travel policy per renderla più efficace, diventa difficile. Uno dei concetti chiave che si sta lentamente affermando è che il business travel non deve essere inteso come una spesa, ma come un investimento per far crescere l’azienda. Non dimentichiamo che in Cina il meeting face-to-face è più importante di qualsiasi altra cosa. Quinto: il reporting. Le aziende stanno perseguendo l’obiettivo di avere sempre più visibilità sulle spese di viaggio (70%). Sesto: le soluzioni online sono in costante crescita. Le utilizza l’80% delle aziende che abbiamo intervistato. Consentono di ottimizzare la spesa e sono più flessibili. Oltre al risparmio per l’abbattimento dei costi di transazione, entra in gioco il cosiddetto visual guilt. È stato rilevato che l’acquirente si sente più propenso a scegliere il biglietto che preferisce se lo compra al telefono. Se invece l’attività è fatta personalmente online ci sarà la tendenza ad avere un “senso di colpa”, con una maggiore propensione a scegliere il biglietto più economico e che rispetta le politiche aziendali. E poi l’online è attivo 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Questo è un mercato molto dinamico, le persone sono molto impegnate: c’è chi fa booking alle 3 del mattino».

Anche qui i treni ad velocità stanno facendo concorrenza ai voli di breve e medio raggio? Come sta evolvendo il mercato dei vettori low cost?
«Dal 2010 la Cina ha la rete di treni ad alta velocità più estesa del mondo e la domanda di biglietti ferroviari sta crescendo. L’utilizzo del treno in Cina è un’abitudine molto radicata. Nel business travel quando la distanza tra il punto di partenza e il punto di arrivo è al di sotto degli 800 chilometri c’è uno scarto a favore del treno, che risulta leggermente più economico. E poi qui gli aerei sono in costante ritardo, perché lo spazio aereo per il volo civile è il più stretto del mondo. Per coprire la tratta Shanghai-Pechino ci vogliono meno di due ore di volo. Il treno ne impiega cinque, ma è più affidabile. Sul treno c’è la connessione wi-fi e le stazioni si trovano in centro città. È un fenomeno che è arrivato più tardi, ma il gap è stato colmato molto velocemente. Oggi notiamo che i vettori fanno accordi con le compagnie ferroviarie per proporre tariffe che combinano una tratta di volo aereo con una in treno. È un’offerta integrata che diventa anche più conveniente per il viaggiatore.
«Tra le compagnie low cost spicca Spring Airways, nata nove anni fa. Il fenomeno non è consolidato come negli Usa o in Europa, ma sta crescendo ed è da tenere sotto osservazione. Le destinazioni e le frequenze di volo al momento sono ridotte: per il business travel può essere un problema. Le stesse autorità si augurano che le low cost crescano per rendere il mercato più competitivo (le compagnie tradizionali sono, direttamente o indirettamente, di proprietà governativa). Prendiamo l’esempio dell’India. Dopo il fallimento della Kingfisher Airlines si è creato un vuoto che ha favorito il dinamismo delle compagnie a basso costo, che oggi presidiano il 50% del mercato».

Come sta evolvendo l’online?
«Un sostanziosa fetta delle transazioni per il turismo, più del 40%, si effettua online. E questo dato crescerà ancora. Ci sono parecchi player come CtripQunar (significa “dove vai”, in cinese) e Taobao, che è una specie di Ebay. Nel business travel la situazione è più problematica, perché c’è un solo Gds e le società che operavano in mercati più sviluppati con prodotti solidi e maturi, come Amadeus o Sabre, hanno avuto qualche difficoltà. Tutte le agenzie come noi hanno sviluppato online solution proprietarie. La nostra vuole essere un one stop shop per l’acquisto del viaggio: dal biglietto aereo, alla prenotazione dell’auto e dell’hotel fino all’autorizzazione del responsabile. Tutto è gestito online con un sistema integrato».

La Cina è una meta interessante per il Mice?
«Noi non ci occupiamo più direttamente di Mice, è una decisione che abbiamo preso qualche anno fa. Ci appoggiamo al nostro partner (CITS MICE). Sono circa 900mila gli italiani che nel 2013 sono venuti in Cina, in leggera flessione rispetto all’anno precedente. Questo Paese è sicuramente una destinazione interessante per le aziende italiane. Anche se, mi viene da dire, un po’ difficile da vendere in questo momento, perché la spesa aerea ha un’incidenza notevole. A livello di Mice offriamo diversità geografica, cultura, infrastrutture straordinarie. Alcuni alberghi sono attrezzati per ospitare oltre un migliaio di persone. La sala conferenze del Shangri-La Pudong a Shanghai accoglie 1700 partecipanti. In un’unica stanza».

Per Expo 2015 aspettiamo a Milano un milione di turisti cinesi. Arriveranno?
«È una stima ufficiale del governo cinese, perciò è prevedibile che succederà. Il turismo outbound sta crescendo in modo esponenziale: lo scorso anno hanno viaggiato più di 90 milioni di cinesi e nel 2016 si prevede che 100 milioni si muoveranno oltre i confini nazionali. Non tutti andranno in Europa, perché gran parte del turismo è diretto ancora verso il Sud-Est Asiatico: Hong Kong, Taiwan, Corea, che sono più vicini. Qui c’è una classe media in continua crescita. Una volta visitate le città delle Cina, anche se sono tante, l’aspirazione è di andare all’estero. Chi visiterà l’Expo per business cercherà di sfruttare l’opportunità per vedere il Paese. Quanto a noi, essendo concentrati sul business travel, non ci siamo ancora mossi. Abbiamo una piccola unità che si occupa di consumer travel per i dipendenti delle società nostre clienti. Per Expo siamo in contatto con Uvet, la società che in Italia fa parte del network American Express».

Che mercato devono prepararsi ad affrontare le aziende italiane interessate a investire in Cina?
«Trovare personale qualificato è ancora difficile. La tendenza di tutte le aziende continua a essere la localizzazione di personale non cinese, almeno nella fase iniziale. Ma non si può nemmeno essere rigidi. È impensabile applicare i modelli italiani in questo mondo. Uno studio pubblicato dalla American Chamber of Commerce evidenzia come fino a una decina di anni fa, a parità di condizioni, un cinese avrebbe scelto di lavorare per un’azienda straniera: migliore stipendio, migliori opportunità, possibilità di viaggiare. Nel 2012, quando è stata pubblicata la ricerca, la situazione era cambiata. Oggi il cinese preferisce lavorare per un’azienda locale, avere un capo cinese e non dover fare conference call con la casa madre alla mattina presto o alla sera tardi. Le nuove generazioni gestiscono con molta attenzione il loro tempo. Un altro problema è quello dei costi di produzione, che sono in aumento. Immobili, finanziamenti bancari e personale sono diventati costosi. E non dimentichiamo che le aziende cinesi stanno crescendo, e non solo nel mercato interno, anche a livello internazionale. Stanno acquisendo un know-how che non solo è al pari del nostro, ma è più affine alle richieste del consumatore cinese. Prima della crisi del 2009 la Cina produceva per esportare, ma da quel momento in poi si è prodotto anche per far crescere la domanda interna (potenzialmente, 1,3 miliardi di persone). Un’azienda italiana che viene qui deve avere ben chiaro a quale fascia di mercato vuole proporre il servizio, o il prodotto. Produrre per esportare? Credo che quel tempo sia passato. Qui c’è davvero poco che costa poco. Non è più come una decina di anni fa».

Che cosa insegna a noi italiani la cultura cinese?
«Una delle cose belle della cultura cinese, e in questo è simile a quella italiana, è che c’è un proverbio per ogni occasione. È una cultura molto profonda con ideogrammi complessi, che contengono piccoli tesori. Uno in particolare mi sembra adatto alla situazione italiana perché ci può insegnare molto ed è yíng, vincere. È composto da cinque piccoli caratteri, ognuno con un significato, una storia. Primo: crisi. Ci deve essere un senso di necessità che porta le persone ad agire. La crisi in Italia non manca. Secondo: comunicazione, intesa come ascolto. In Italia la comunicazione è più conflitto che dialogo. Terzo: accumulo. Per arrivare a un obiettivo c’è un lavoro costante, dove si esercita la pazienza. Quarto: investimento, cioè impegno quotidiano. Quinto: equilibrio. Ci deve essere armonia nelle cose che si fanno. In questa cultura c’è molto senso dell’armonia. In una riunione non ci saranno mai scontri, perché eticamente non è accettabile offendere l’altro, fargli “perdere la faccia”. I toni sono morbidi, gentili, e c’è molto rispetto. In Cina per fare business ascoltare è più importante che parlare».

Testo di Simona Silvestri, Mission n.4, giugno-luglio 2014

  Condividi:

Lascia un commento

*