Un tempo erano semplici luoghi di passaggio, di arrivi e partenze: oggi, invece, gli aeroporti sono sempre più simili a vere e proprie “aerotropoli”, templi dello shopping e dei servizi in grado di attrarre anche chi non è in procinto di prendere un aereo. La causa di questa metamorfosi? Di pari passo con la progressiva diminuzione dei ricavi generati dalle attività aeronautiche (servizi a terra, gestione dei voli) gli scali hanno cominciato a puntare sempre di più sul cosiddetto comparto “non aviation”: boutique, ristoranti, bar, parcheggi, ma anche operazioni di real estate, come l’affitto di uffici e sale riunioni. Una serie di attività che, ormai, si avviano a rappresentare l’autentico “core business” delle aerostazioni, o comunque la chiave per crescere e mantenere i bilanci in attivo. Basti pensare che in alcuni scali europei, quale quello di Dublino, i profitti derivano solo per il 40% dalla gestione dei voli e per il 60% dal retail aeroportuale.
E in Italia? Secondo i dati emersi il 12 luglio a Bologna durante il forum dell’Atri, associazione che riunisce le imprese italiane operanti nel travel retail e duty free, queste punte di eccellenza sono ancora lontane. «Il retail è una delle componenti di maggior ricavo per uno scalo aeroportuale, oltre a contribuire a promuoverne l’immagine – spiega Fulvio Fassone, presidente di Atri e direttore marketing e commerciale di Sagat, la società di gestione di Torino Caselle –. Oggi, però, questa voce pesa sui profitti degli aeroporti italiani per appena il 40%. Di questa percentuale, circa il 25% è connesso al retail, cioè ai classici punti vendita».
«Si tratta di una percentuale ancora modesta, se paragonata al 50% di altri scali europei – sottolinea il professor David Jarach, docente senior presso la Sda Bocconi e presidente di Diciottofebbraio, boutique di advisory strategica dedicata al comparto dell’air transportation -. Per convincere i vettori aerei a operare dai propri scali le società di gestione offrono incentivi economici e sconti rilevanti sulle attività di handling (servizi a terra, Ndr). Per questo, ormai, le attività aeronautiche garantiscono margini di profitto ridotti, talvolta non sufficienti ad assicurare, da soli, la sopravvivenza di un’aerostazione. Le attività non aviation, dunque, diventano indispensabili per aumentare la redditività.
«Il problema – prosegue Jarach – è che in Italia gli aeroporti, per lo più a partecipazione statale, non sono gestiti con logiche manageriali, bensì sulla base di interessi politici. Per questo le attività non aviation, fino ad oggi, sono state trascurate non soltanto dalle Istituzioni, ma anche dagli enti che si occupano del settore aeroportuale, primo fra tutti Assaeroporti».
Ma qual è la ricetta per dare impulso al retail nelle aerostazioni? «La maggior parte degli aeroporti italiani sono stati pensati e costruiti per valorizzare le attività aeronautiche, non quelle commerciali – sostiene Jarach -. Andrebbero quindi riprogettati in maniera diversa: ad esempio, occorrerebbe introdurre percorsi “walk-trough”, che guidino i passeggeri verso le aree di shopping. Questi interventi, però, sono impegnativi e richiedono una visione di lungo periodo, mentre il sistema aeroportuale italiano tende a vivere “alla giornata”». Vi sono però delle eccezioni. «Ad esempio l’aeroporto di Torino Caselle, che in virtù delle proprie strategie nel comparto non aviation è oggi l’aeroporto regionale più redditizio in Italia – afferma Jarach -. Un successo reso possibile, sicuramente, dalla parziale privatizzazione dello scalo (partecipato da Benetton, Ndr), che ha consentito di applicare alla gestione logiche di profitto».
«Abbiamo sottoposto Torino Caselle a importanti lavori di ristrutturazione già in occasione delle Olimpiadi Invernali del 2006 – spiega Fassone -. Oggi gli spazi dedicati al retail si estendono per circa 1500 metri quadrati e includono tre aree di shopping, di cui due gestite direttamente da Sagat. Stiamo già progettando per il futuro, perché riteniamo che l’attuale crisi economica debba rappresentare uno stimolo per tentare nuove strade e migliorare il proprio business. Al momento è in corso la riprogettazione dell’area “air-side”, che verrà dotata di percorsi obbligati che conducono ai punti vendita. Si tratta di imponenti lavori infrastrutturali, che saranno completati intorno alla metà del 2010».
Tra gli aeroporti che hanno deciso di puntare sul retail spicca anche Bergamo Orio al Serio. «Nel nostro aeroporto il settore non aviation genera circa il 25% dei profitti complessivi – afferma Matteo Baù, responsabile commerciale non aviation di Sacbo, la società di gestione dello scalo -. Il nostro obiettivo è incrementare questo comparto, portando gli spazi commerciali dagli attuali 1800 metri quadrati a 3500 entro i primi mesi del 2010. Realizzeremo nuovi punti vendita, scelti sulla base di un’accurata profilazione dei nostri viaggiatori».
Gusti che cambiano
Com’era inevitabile, l’attuale crisi economica ha toccato anche il settore del retail aeroportuale. «Oggi, rispetto al passato, la spesa media per passeggero è diminuita di circa il 13-15% in tutti i principali scali del Vecchio Continente – dichiara Fassone -. In realtà, la propensione all’acquisto ha cominciato a calare già qualche anno fa, con l’avvento delle compagnie aeree low cost: il traffico generato da questo tipo di vettori, infatti, è composto in prevalenza da passeggeri attenti al risparmio e poco dediti allo shopping negli scali. Agli aeroporti non rimane che adattarsi a questo nuovo scenario, profilando attentamente i consumatori e diversificando l’offerta: meno punti vendita dedicati ai prodotti di lusso e nuove tipologie di negozi, con prezzi più accessibili».
«Fino a una decina di anni fa fare acquisti in aeroporto significava acquistare cravatte firmate o profumi a prezzi convenienti, grazie alla mancata applicazione dell’Iva – sottolinea Baù -: oggi, invece, i negozi negli aeroporti sono sempre più simili ai punti vendita tradizionali. A mio parere, a influire sul successo del comparto retail è anche la permanenza media in aeroporto: nel nostro scalo, ad esempio, quest’ultima è di circa due ore. Per questo otteniamo profitti soprattutto dall’area food, più che dagli altri esercizi commerciali».
Per dare impulso alle attività commerciali negli scali, però, è indispensabile risolvere un problema che coinvolge le compagnie aeree, soprattutto low cost. «Attualmente i vettori a basso costo tendono a penalizzare l’imbarco dei bagagli, applicando onerose fee su ogni valigia in più e consentendo il trasporto a bordo di non più di un bagaglio a mano – spiega Fassone -. Ciò, ovviamente, finisce per penalizzare l’acquisto nei punti vendita degli aeroporti. Comprendiamo le motivazioni alla base di questi provvedimenti: imbarcare un minor numero di bagagli, infatti, consente di ridurre i tempi di imbarco, rispettando il rapido turnaround degli aeromobili. È indispensabile, però, definire delle strategie comuni».
Testo di Arianna De Nittis, Mission n. 6, settembre 2009